di Leonardo Sciascia
Ed Corriere della Sera
Prefazione di Andrea Purgatori
IL TESTAMENTO MORALE DI UN SICILIANO
In questa storia non ci sono eroi ma solo mezzi
uomini – mezzi poliziotti e mezzi carabinieri, mezzi magistrati, mezzi preti,
mezzi testimoni. Gente un po’ rozza e un po’ pavida, che s’aggiusta l’esistenza
scansando i problemi. In questa storia l’unico che eroe potrebbe davvero
diventare, alla fine s’arrende alla verità più comoda perché, come si dice, ha
una vita da campare.
In questa storia di mafia e di droga, ci sono
due parole che non compaiono mai: mafia e droga. Ma è tutto chiaro lo stesso.
Talmente chiaro che, a immaginarla senza un riferimento alla Sicilia, ai suoi
tempi, ai suoi odori e silenzi, l’indagine del brigadiere di polizia Antonio
Langandara alla prese con il cadavere di Giorgio Roccella di Monterosso,
diplomatico in pensione che tutti vorrebbero suicida e che lui da subito
sospetta suicidato, potremmo ritrovarla tale e quale ambientata a Parma, da
qualche parte in Provenza o magari in un piccolo villaggio della campagna
irlandese.
La lezione è questa: il Male non abita solo la Sicilia , il Male è
globale. La Sicilia
aiuta solo a capire meglio e più in fretta le cose.
Una storia
semplice
arrivò in libreria agli inizi di novembre del 1989, che Leonardo Sciascia si
stava ormai spegnendo. Erano i giorni della caduta del Muro di Berlino, della
violenta repressione cinese dopo Tienanmen, di Dubcek presidente della
Cecoslovacchia democratica, di Panama invasa dai marines, della vigilia della
rivolta dei rumeni contro il tiranno Ceausescu. In Italia, più modestamente,
erano i giorni della nascita del CAF (Craxi, Andreotti, Forlani). E per
Giovanni Falcone a Palermo, era giusto il tempo di preparare le valigie dopo essere
sfuggito a un attentato nella sua villa all’Addaura, al culmine di un’estate
tormentata, soffocante, dominata dalle lettere anonime di un”Corvo” capace di
spargere nuove infamie e veleni su molti magistrati e poliziotti che, in
seguito a un famoso articolo di Sciascia pubblicato sul “Corriere della Sera”
il 10 gennaio 1987, per molti erano diventati i “professionisti
dell’Antimafia”. Il 20 novembre 1989 Leonardo Sciascia muore.
Una storia
semplice,
scritto nella lunga stagione del malessere fisico e della solitudine, è il suo
testamento.
Anche Giorgio Roccella di Monterosso ne lascia
uno, di testamento. Due parole e un punto: “Ho trovato.”. Così almeno c’è
scritto sul foglio di carta che il brigadiere Langandara scopre nello studio
della masseria disabitata da tanti anni, dove l’ex diplomatico aveva
improvvisamente deciso di tornare per rileggere e studiare alcune vecchie
lettere di Garibaldi e Pirandello, eredità di famiglia, conservate in
soffitta.”Ho trovato.”, anche se nessuno immagina cosa.
In testa il foro di entrata di un proiettile, in
terra una pistola che ha sì sparato,
ma pare un pezzo d’antiquariato. Tutta qui la
scena del delitto, a non volersi complicare la giornata più di tanto. Che è la
filosofia del questore, del colonnello dei carabinieri, del magistrato, del
commissario, del prete, cioè di tutte le maschere di questa storia semplice,
che con lucida stupidità o con premeditazione lucida s’affannano intorno al
cadavere nel tentativo di chiudere rapidamente il caso e restituire se stesse alla
rassicurante normalità quotidiana. Il questore è il più svelto, ha già in tasca
la soluzione, suicidio – “Questo è un caso semplice, bisogna non farlo montare
e sbrigarcene al più presto”.
Non è cero il capitano Bellodi del “Giorno della
civetta”, uomo curioso, coraggioso, colto, capace di riconoscere una trama
nascosta tra le pieghe di un delitto, questo mezzo questore che s’arrangia la
vita con un po’ d’arroganza e potere. Gli somiglia di più il brigadiere
Langandara, almeno per la curiosità se non per il coraggio. Almeno fino a
quando le cose s’ingarbugliano e pure lui comincia a sbandare. La verità è che
sono passati trent’anni o poco meno e nel mondo di Sciascia gli eroi sono
praticamente svaniti. Per disillusione, per tante esperienze fatte. E sulla
scena restano queste pallide figure, che poi siamo tutti noi. Dunque, via le
maiuscole – Speranza che diviene speranza, Giustizia che diventa giustizia,
Verità che diventa verità. Resta un mondo approssimativo, fatto di mezzi
uomini, che si dibatte miseramente per sopravvivere. Dove però esiste un’ultima
possibilità di riscatto che è anche l’ultima maiuscola possibile, quella
dell’Intelletto, della Cultura, del Ragionamento. Ed ecco che, in mezzo alla
folla dei mezzi uomini, tocca ad un anziano professore ristabilire l’ordine
delle cose. Più da osservatore malinconico, che da attore. Comunque sia, un
palmo sopra tutti gli altri. Si chiama Carmelo Franzò, è un vecchio amico della
vittima.
Il procuratore , mezzo uomo anche lui, privo di
fantasia e fastidioso nella difesa delle sue insulse conclusione, era stato suo
allievo. Adesso le parti si sono invertite, sta pensando. E lui lo tiene in
pugno, ha l’autorità, il potere , può interrogarlo. Ma non è della vittima, di
come è morto o è stato ucciso, che gli interessa sapere. La prima cosa che ha
da chiedergli è solo personale: “Nei componimenti di italiano lei mi assegnava
sempre un tre, perché copiavo. Ma una volta mi ha dato un cinque: perché?”.
“Perché aveva copiato da un autore più intelligente”. Il magistrato scoppiò a
ridere. “L’italiano: ero piuttosto debole in italiano. Ma, come vede, non è poi
stato un gran guaio: sono qui…procuratore della Repubblica…”. “L’italiano non è
l’italiano: è il ragionare” disse il professore. “Con meno italiano, lei
sarebbe forse ancora più in alto”.
Al professore Carmelo Franzò, invece interessano
le lettere di Pirandello. Non che la brutta fine del vecchio amico lo lasci
indifferente, questo proprio non. Anzi, collabora all’indagine come può.
Insinua dubbi, fornisce elementi, arrivando a mettere in crisi il castello di
certezze costruito dal manipolo di mezzi
uomini dalle cui mani si dipana l’indagine. Ma quelle lettere… Durante il breve
sopralluogo nella masseria del delitto il professore riesce addirittura a
sfogliarle, a soffermarsi su qualche frase.
Sciascia spende ben quattro righe – quattro
righe di questo racconto, che valgono più di quattro pagine – per annotare
quello che gli sta passando per la testa.(A diciotto anni, Pirandello pensava
quel che avrebbe scritto fin oltre i sessanta”… “Queste lettere di Pirandello
mi piacerebbe leggermele bene”). Che poi è la sua testa, cioè quella di
Sciascia. Così come Pirandello, la sua formazione e il suo rovello, durante il
suo viaggio di ritorno in macchina verso il paese, si travasano pian piano nel
rovello ossessivo del professor Franzò, mentre è intento a ragionare col
brigadiere Langandara sugli strani compartimenti di quell’altro mezzo uomo del
commissario (Ed enigmaticamente , come parlando tra sé, aggiunse:
“Pirandello”).
Una sola donna, in questo racconto: l’ex moglie
(straniera) della vittima. Una donna dalle mani laccate e inanellate che però,
a differenza di tante altre giovani e meno giovani donne incontrate nei romanzi
di Sciascia, - chi non ricorda la sensualissima vedova di “A ciascuno il
suo”?-, non sprigiona alcun erotismo né
sensualità. A lei e al figlio che l’ex diplomatico credeva suo, ma che si
rivela figlio di uno degli amanti della donna (come atto estremo d’amore per il
defunto e d’odio per la madre, il ragazzo dichiara di aver scelto proprio lui
come padre e si becca un sonoro ceffone), Sciascia dedica un unico capitolo di
appena tre pagine. Tagliente, feroce. Ne esce il ritratto di una mezza donna
tra mezzi uomini. Algida, egoista, opportunista, rapace. Che sta giocando le
sue carte per un pezzo d’eredità, pronta a strapparlo anche al proprio figlio,
se necessario, Una mezza donna il cui ultimo pensiero è sapere di che cosa sia
morto il marito. Profondamente razzista: “La signora scrollò le spalle. “Era
siciliano,” disse “e i siciliani, ormai da anni, chi sa perché, si ammazzano
tra di loro”.
La mafia, la droga ed anche un dipinto rubato.
Tutta qui, se vi sembra poco, la spiegazione del “perchè” si ammazzano. Ma non
soltanto i siciliani. Di siciliano, in Una storia semplice, c’è invece forte,
fortissimo il gusto raffinato, l’ironia di Sciascia che, per parlare di droga
senza però mai nominarla, nei magazzini della masseria fa fare al brigadiere
Langandara il gioco degli odori: “di zucchero bruciato, di foglie di eucalipto
macerate, di alcool”… Un gioco che funziona allo stesso modo per la mafia. O
meglio, per la mafiosità del complotto e dei mezzi uomini coinvolti,
direttamente e indirettamente, nell’omicidio. Perché mafiosi o semplicemente
perché troppo sfiduciati dalle istituzioni, in questo caso dalla giustizia con
g minuscola. A cominciare dall’uomo della Volvo, testimone che “spontaneamente”
si presente in questura una prima volta per raccontare ciò che sa sulla morte
di un capostazione e del suo assistente, ne paga le conseguenze quasi fosse un
complice di criminali, e la seconda volta finisce che ci pensa bene e invece di
andare a fare il proprio dovere- il dovere di tutti noi, è la metafora di
Sciascia - va via per la sua strada, “cantando”.
A rileggerlo- ma si legge d’un fiato- questo
testamento politico, etico, scritto sotto forma di racconto lungo, che sprizza
pessimismo e disincanto ed è preceduto da una frase di Durrenmatt (“Ancora una
volta voglio scandagliare scrupolosamente le possibilità che forse ancora
restano alla giustizia”), pare la sceneggiatura bell’è pronta di un film. E nel
1991 lo diventò davvero. Un bellissimo film di Emilio Greco (sceneggiato
insieme ad Andrea Barbato), con Gian Maria Volontè protagonista. Anche per
Volontè, che di Sciascia aveva già interpretato “A ciascuno il suo” e “Toto
modo” per la regia di Elio Petri e “Porte aperte “ di Gianni Amelio, si trattò
di una sorta di testamento prima della morte. Ma è un’altra faccenda (volendo,
un’altra coincidenza). Una storia semplice è costruita intorno ad una struttura
scarna ma solidissima. È una catena di conflitti che scegliendosi diventano il
motore della storia stessa. Anche così soltanto nei grandi racconti e nelle
grandi sceneggiature. Anche se ispirate da vicende solo in apparenza molto
semplici, proprio come questa.