domenica 30 aprile 2017

Una storia semplice

 di Leonardo Sciascia
Ed Corriere della Sera

Prefazione di Andrea Purgatori

IL TESTAMENTO MORALE DI UN SICILIANO

In questa storia non ci sono eroi ma solo mezzi uomini – mezzi poliziotti e mezzi carabinieri, mezzi magistrati, mezzi preti, mezzi testimoni. Gente un po’ rozza e un po’ pavida, che s’aggiusta l’esistenza scansando i problemi. In questa storia l’unico che eroe potrebbe davvero diventare, alla fine s’arrende alla verità più comoda perché, come si dice, ha una vita da campare.
In questa storia di mafia e di droga, ci sono due parole che non compaiono mai: mafia e droga. Ma è tutto chiaro lo stesso. Talmente chiaro che, a immaginarla senza un riferimento alla Sicilia, ai suoi tempi, ai suoi odori e silenzi, l’indagine del brigadiere di polizia Antonio Langandara alla prese con il cadavere di Giorgio Roccella di Monterosso, diplomatico in pensione che tutti vorrebbero suicida e che lui da subito sospetta suicidato, potremmo ritrovarla tale e quale ambientata a Parma, da qualche parte in Provenza o magari in un piccolo villaggio della campagna irlandese.
La lezione è questa: il Male non abita solo la Sicilia, il Male è globale. La Sicilia aiuta solo a capire meglio e più in fretta le cose.
Una storia semplice arrivò in libreria agli inizi di novembre del 1989, che Leonardo Sciascia si stava ormai spegnendo. Erano i giorni della caduta del Muro di Berlino, della violenta repressione cinese dopo Tienanmen, di Dubcek presidente della Cecoslovacchia democratica, di Panama invasa dai marines, della vigilia della rivolta dei rumeni contro il tiranno Ceausescu. In Italia, più modestamente, erano i giorni della nascita del CAF (Craxi, Andreotti, Forlani). E per Giovanni Falcone a Palermo, era giusto il tempo di preparare le valigie dopo essere sfuggito a un attentato nella sua villa all’Addaura, al culmine di un’estate tormentata, soffocante, dominata dalle lettere anonime di un”Corvo” capace di spargere nuove infamie e veleni su molti magistrati e poliziotti che, in seguito a un famoso articolo di Sciascia pubblicato sul “Corriere della Sera” il 10 gennaio 1987, per molti erano diventati i “professionisti dell’Antimafia”. Il 20 novembre 1989 Leonardo Sciascia muore.
Una storia semplice, scritto nella lunga stagione del malessere fisico e della solitudine, è il suo testamento.
Anche Giorgio Roccella di Monterosso ne lascia uno, di testamento. Due parole e un punto: “Ho trovato.”. Così almeno c’è scritto sul foglio di carta che il brigadiere Langandara scopre nello studio della masseria disabitata da tanti anni, dove l’ex diplomatico aveva improvvisamente deciso di tornare per rileggere e studiare alcune vecchie lettere di Garibaldi e Pirandello, eredità di famiglia, conservate in soffitta.”Ho trovato.”, anche se nessuno immagina cosa.
In testa il foro di entrata di un proiettile, in terra una pistola che ha sì sparato,
ma pare un pezzo d’antiquariato. Tutta qui la scena del delitto, a non volersi complicare la giornata più di tanto. Che è la filosofia del questore, del colonnello dei carabinieri, del magistrato, del commissario, del prete, cioè di tutte le maschere di questa storia semplice, che con lucida stupidità o con premeditazione lucida s’affannano intorno al cadavere nel tentativo di chiudere rapidamente il caso e restituire se stesse alla rassicurante normalità quotidiana. Il questore è il più svelto, ha già in tasca la soluzione, suicidio – “Questo è un caso semplice, bisogna non farlo montare e sbrigarcene al più presto”.
Non è cero il capitano Bellodi del “Giorno della civetta”, uomo curioso, coraggioso, colto, capace di riconoscere una trama nascosta tra le pieghe di un delitto, questo mezzo questore che s’arrangia la vita con un po’ d’arroganza e potere. Gli somiglia di più il brigadiere Langandara, almeno per la curiosità se non per il coraggio. Almeno fino a quando le cose s’ingarbugliano e pure lui comincia a sbandare. La verità è che sono passati trent’anni o poco meno e nel mondo di Sciascia gli eroi sono praticamente svaniti. Per disillusione, per tante esperienze fatte. E sulla scena restano queste pallide figure, che poi siamo tutti noi. Dunque, via le maiuscole – Speranza che diviene speranza, Giustizia che diventa giustizia, Verità che diventa verità. Resta un mondo approssimativo, fatto di mezzi uomini, che si dibatte miseramente per sopravvivere. Dove però esiste un’ultima possibilità di riscatto che è anche l’ultima maiuscola possibile, quella dell’Intelletto, della Cultura, del Ragionamento. Ed ecco che, in mezzo alla folla dei mezzi uomini, tocca ad un anziano professore ristabilire l’ordine delle cose. Più da osservatore malinconico, che da attore. Comunque sia, un palmo sopra tutti gli altri. Si chiama Carmelo Franzò, è un vecchio amico della vittima.
Il procuratore , mezzo uomo anche lui, privo di fantasia e fastidioso nella difesa delle sue insulse conclusione, era stato suo allievo. Adesso le parti si sono invertite, sta pensando. E lui lo tiene in pugno, ha l’autorità, il potere , può interrogarlo. Ma non è della vittima, di come è morto o è stato ucciso, che gli interessa sapere. La prima cosa che ha da chiedergli è solo personale: “Nei componimenti di italiano lei mi assegnava sempre un tre, perché copiavo. Ma una volta mi ha dato un cinque: perché?”. “Perché aveva copiato da un autore più intelligente”. Il magistrato scoppiò a ridere. “L’italiano: ero piuttosto debole in italiano. Ma, come vede, non è poi stato un gran guaio: sono qui…procuratore della Repubblica…”. “L’italiano non è l’italiano: è il ragionare” disse il professore. “Con meno italiano, lei sarebbe forse ancora più in alto”.
Al professore Carmelo Franzò, invece interessano le lettere di Pirandello. Non che la brutta fine del vecchio amico lo lasci indifferente, questo proprio non. Anzi, collabora all’indagine come può. Insinua dubbi, fornisce elementi, arrivando a mettere in crisi il castello di certezze costruito  dal manipolo di mezzi uomini dalle cui mani si dipana l’indagine. Ma quelle lettere… Durante il breve sopralluogo nella masseria del delitto il professore riesce addirittura a sfogliarle, a soffermarsi su qualche frase.
Sciascia spende ben quattro righe – quattro righe di questo racconto, che valgono più di quattro pagine – per annotare quello che gli sta passando per la testa.(A diciotto anni, Pirandello pensava quel che avrebbe scritto fin oltre i sessanta”… “Queste lettere di Pirandello mi piacerebbe leggermele bene”). Che poi è la sua testa, cioè quella di Sciascia. Così come Pirandello, la sua formazione e il suo rovello, durante il suo viaggio di ritorno in macchina verso il paese, si travasano pian piano nel rovello ossessivo del professor Franzò, mentre è intento a ragionare col brigadiere Langandara sugli strani compartimenti di quell’altro mezzo uomo del commissario (Ed enigmaticamente , come parlando tra sé, aggiunse: “Pirandello”).
Una sola donna, in questo racconto: l’ex moglie (straniera) della vittima. Una donna dalle mani laccate e inanellate che però, a differenza di tante altre giovani e meno giovani donne incontrate nei romanzi di Sciascia, - chi non ricorda la sensualissima vedova di “A ciascuno il suo”?-, non sprigiona alcun erotismo  né sensualità. A lei e al figlio che l’ex diplomatico credeva suo, ma che si rivela figlio di uno degli amanti della donna (come atto estremo d’amore per il defunto e d’odio per la madre, il ragazzo dichiara di aver scelto proprio lui come padre e si becca un sonoro ceffone), Sciascia dedica un unico capitolo di appena tre pagine. Tagliente, feroce. Ne esce il ritratto di una mezza donna tra mezzi uomini. Algida, egoista, opportunista, rapace. Che sta giocando le sue carte per un pezzo d’eredità, pronta a strapparlo anche al proprio figlio, se necessario, Una mezza donna il cui ultimo pensiero è sapere di che cosa sia morto il marito. Profondamente razzista: “La signora scrollò le spalle. “Era siciliano,” disse “e i siciliani, ormai da anni, chi sa perché, si ammazzano tra di loro”.
La mafia, la droga ed anche un dipinto rubato. Tutta qui, se vi sembra poco, la spiegazione del “perchè” si ammazzano. Ma non soltanto i siciliani. Di siciliano, in Una storia semplice, c’è invece forte, fortissimo il gusto raffinato, l’ironia di Sciascia che, per parlare di droga senza però mai nominarla, nei magazzini della masseria fa fare al brigadiere Langandara il gioco degli odori: “di zucchero bruciato, di foglie di eucalipto macerate, di alcool”… Un gioco che funziona allo stesso modo per la mafia. O meglio, per la mafiosità del complotto e dei mezzi uomini coinvolti, direttamente e indirettamente, nell’omicidio. Perché mafiosi o semplicemente perché troppo sfiduciati dalle istituzioni, in questo caso dalla giustizia con g minuscola. A cominciare dall’uomo della Volvo, testimone che “spontaneamente” si presente in questura una prima volta per raccontare ciò che sa sulla morte di un capostazione e del suo assistente, ne paga le conseguenze quasi fosse un complice di criminali, e la seconda volta finisce che ci pensa bene e invece di andare a fare il proprio dovere- il dovere di tutti noi, è la metafora di Sciascia - va via per la sua strada, “cantando”.

A rileggerlo- ma si legge d’un fiato- questo testamento politico, etico, scritto sotto forma di racconto lungo, che sprizza pessimismo e disincanto ed è preceduto da una frase di Durrenmatt (“Ancora una volta voglio scandagliare scrupolosamente le possibilità che forse ancora restano alla giustizia”), pare la sceneggiatura bell’è pronta di un film. E nel 1991 lo diventò davvero. Un bellissimo film di Emilio Greco (sceneggiato insieme ad Andrea Barbato), con Gian Maria Volontè protagonista. Anche per Volontè, che di Sciascia aveva già interpretato “A ciascuno il suo” e “Toto modo” per la regia di Elio Petri e “Porte aperte “ di Gianni Amelio, si trattò di una sorta di testamento prima della morte. Ma è un’altra faccenda (volendo, un’altra coincidenza). Una storia semplice è costruita intorno ad una struttura scarna ma solidissima. È una catena di conflitti che scegliendosi diventano il motore della storia stessa. Anche così soltanto nei grandi racconti e nelle grandi sceneggiature. Anche se ispirate da vicende solo in apparenza molto semplici, proprio come questa.

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